| La scoperta La
    ricerca sistematica di una regola chiara che rendesse ragione delle distanze dei pianeti
    dal Sole sembrava aver trovato alla fine del secolo XVIII la definitiva risposta nella legge
    empirica di Titius-Bode (d = 0.4 + 0.3 x 2N con N =
    -oo ; 0; 1; 2; 3;...) anche grazie alla scoperta di Urano, casualmente identificato da W.
    Herschel il 13 marzo 1781, la cui distanza rispondeva perfettamente a tale legge.Questa semplice relazione, formulata da J.D. Titius von Wittenberg (1729-1796) e resa
    popolare da J.E. Bode (1747-1826), sintetizzava in modo semplice ed elegante le conoscenze
    raggiunte circa le distanze planetarie.
 Si manifestava, però, una inspiegabile lacuna in corrispondenza del valore N=3.
 La considerazione che godeva la legge di Bode era, però, così alta che, nel 1800 il
    barone Franz von Zach riunì a Lilienthal un gruppo di sei astronomi (il gruppo era
    chiamato Himmel Polizei) proprio con l'intento di organizzare una accurata
    ricerca di questo pianeta mancante.
 Quando poi, il 1° gennaio 1801, il Direttore dell'Osservatorio di Palermo (padre G.
    Piazzi), casualmente, scoprì l'esistenza di un pianeta sconosciuto (Cerere) i cui
    parametri orbitali gli facevano occupare il posto mancante tra Marte e Giove, i pochi
    dubbi sulla validità della relazione di Bode sparirono.
 Ma per poco...
 Nel giro, infatti, di 7 anni furono scoperti altri 3 corpi gravitanti alla medesima
    distanza (Pallade, Giunone e Vesta); nel 1868 erano un centinaio e nel 1890 trecento.
 Grazie all'impiego delle tecniche fotografiche (doppie esposizioni, lunghe esposizioni
    oppure confronto tra lastre eseguite in tempi differenti) e delle tecniche digitali è
    stato possibile aumentare enormemente il numero conosciuto di questi corpi celesti: oggi
    ne sono noti oltre 40 mila le cui dimensioni variano da poche centinaia di metri a quasi
    1000 km, ma il loro numero è destinato a salire vertiginosamente.
 A tale proposito è significativo un grafico (per i piccoli diametri evidentemente
    teorico) che mette in relazione il numero di oggetti del Sistema Solare con le rispettive
    dimensioni (Figura 1 - Lang e Whitney, Vagabondi nello spazio, pag.
    206, fig. 7.15)
 
  La difficile
    individuazione di questi oggetti celesti è chiaramente imputabile alle loro ridotte
    dimensioni angolari, che risultano confrontabili con la massima risoluzione consentita
    agli strumenti ottici in nostro possesso dalla turbolenza atmosferica. E opportuna, a questo punto, una breve digressione sui metodi osservativi utilizzati per
    lo studio di questi oggetti celesti e dei Corpi Minori in generale.
 Il più antico è certamente l'osservazione delle posizioni, che ha fornito alla
    Meccanica Celeste i dati necessari alla determinazione sufficientemente precisa dei
    parametri orbitali di molti asteroidi.
 La numerazione progressiva con la quale (oltre al nome proprio) vengono indicati gli
    asteroidi viene assegnata solamente quando l'orbita è ritenuta nota in modo definitivo;
    fino a quel momento vengono identificati con una sigla provvisoria che indica il periodo
    della loro individuazione in cielo.
 A fine dicembre 1996 il numero di asteroidi definitivamente numerati era di 7367 (De Meis
    e Meeus, 1997).
 E grazie all'accurata rilevazione delle posizioni in cielo che Halley riuscì a studiare
    il cammino della cometa che porta il suo nome prevedendone il ritorno.
 A proposito delle comete è inevitabile sottolineare, anche se potrà apparire scontato,
    che questi corpi celesti, proprio per la loro morfologia, presentino, a differenza degli
    asteroidi, una notevole visibilità; è forse proprio questo il motivo per il quale, fin
    dalle epoche antiche, hanno occupato un posto importante (anche se decisamente infausto)
    tra i fenomeni celesti.
 A partire dal 1891, la ricerca di nuovi asteroidi è stata supportata dal metodo
    fotografico, soprattutto grazie all'opera di Max Wolf dell'Osservatorio del
    Königstuhl di Heidelberg (è di quell'anno la scoperta di 323 Brucia, primo asteroide
    individuato con tecnica fotografica).
 Grazie all'impiego della tecnica fotografica ed al perfezionamento della strumentazione
    astronomica, l'aumento di scoperte è stato veramente impressionante: prima del 1891 erano
    noti 322 asteroidi, nel 1977 si era già a quota 2000, il no 3000 fu
    scoperto nel 1984 e si è giunti, nel novembre 1991, al no 5000.
    (Calanca et al., 1996).
 Oggi siamo di fronte ad una nuova rivoluzione tecnologica: l'impulso proveniente dall'impiego
    dei C.C.D. e dall'analisi computerizzata delle immagini può essere paragonato
    a quanto è avvenuto nel secolo scorso con l'avvento dell'emulsione fotografica con, in
    più, la possibilità di automatizzare la ricerca grazie al blinking (cioè il confronto
    tra due immagini ottenute in tempi differenti) operato dal software.
 Grande importanza ha l'osservazione spettroscopica alla quale è dovuto in gran
    parte il bagaglio di conoscenze sulla composizione mineralogica dei Corpi Minori.
 Mentre per gli asteroidi si analizza la luce solare riflessa, per le comete a questa si
    sovrappongono le bande in emissione di molecole e radicali eccitati dalla radiazione
    solare.
 Sempre sfruttando la luce solare riflessa, ricorrendo alle osservazioni fotometriche
    (curve di luce), si è riusciti, nel caso di molti asteroidi, a determinare con precisione
    il periodo di rotazione intorno al proprio asse ed avere una stima della loro forma.
 L'analisi delle curve di luce disponibili (agli inizi degli anni 90 l'Asteroid
    Photometric Catalogue conteneva circa 5000 curve di luce di più di 700 asteroidi)
    suggerisce che la maggior parte degli asteroidi ha forme tutto sommato regolari
    (ellissoidi biassiali o triassiali) con poche strutture superficiali di grandi dimensioni
    responsabili di particolari variazioni delle curve di luce.
 Alcuni oggetti, tuttavia, mostrano particolari andamenti delle curve di luce,
    riconducibili a forme irregolari e a variazioni di albedo (Dotto, 1996).
 Valutazioni plausibili dell'albedo (praticamente il grado di riflettività della
    superficie del corpo celeste) sono possibili con il metodo radiometrico; si
    confronta la luminosità dell'asteroide in luce visibile con quella a lunghezze d'onda
    infrarosse valutando che un oggetto più scuro assorbe più luce, si riscalda maggiormente
    e perciò la sua emissione di radiazione termica è maggiore.
 Da queste valutazioni dell'albedo, associate alla distanza (ricavata dallo studio
    dell'orbita) ed alla luminosità è stato possibile stimare le dimensioni degli asteroidi.
 Nella tabella sono riportati alcuni dati (tra cui le stime dei diametri) relativi ai 10
    asteroidi di maggiori dimensioni:
 
 
      
        | N.o | Nome | Dist. dal Sole (106 km)
 | Albedo | Diametro (km)
 | Scopritore | Anno |  
        | 1 | CERERE | 413.9 | 0.10 | 913 | Piazzi | 1801 |  
        | 2 | PALLADE | 414.5 | 0.14 | 523 | Olbers | 1802 |  
        | 4 | VESTA | 353.4 | 0.38 | 501 | Olbers | 1807 |  
        | 10 | HYGIEA | 470.3 | 0.08 | 429 | De Gasparis | 1849 |  
        | 511 | DAVIDA | 475.4 | 0.05 | 337 | Dugan | 1903 |  
        | 704 | INTERAMNIA | 458.1 | 0.06 | 333 | Cerulli | 1910 |  
        | 52 | EUROPA | 463.3 | 0.06 | 312 | Goldschmidt | 1858 |  
        | 15 | EUNOMIA | 395.5 | 0.19 | 272 | De Gasparis | 1851 |  
        | 87 | SYLVIA | 521.5 | 0.04 | 271 | Pogson | 1866 |  
        | 16 | PSYCHE | 437.1 | 0.10 | 264 | De Gasparis | 1852 | 
      I valori dei diametri sono stati ricavati da: Hilton et al., 1996Gli altri dati sono stati tratti (maggio 1996) da:
      http://bang.lanl.gov/solarsys/asteroid.htm
 Un ulteriore grande balzo in avanti nelle conoscenze di questi corpi celesti si è
    avuto con l'introduzione di due nuovi strumenti di indagine: l'astronomia radar e
    l'esplorazione ravvicinata con sonde spaziali.Dalla prima riusciamo ad ottenere informazioni apprezzabilmente corrette della forma e
    dello stato di rotazione dell'oggetto; la grossa limitazione è costituita dal fatto che
    l'efficacia di questa tecnica è fortemente dipendente dalla distanza Terra-corpo dal
    momento che l'eco radar (anche con gli apparati più potenti) fornisce informazioni utili
    in un range di distanze abbondantemente inferiori a 1 U.A., interessando dunque
    soprattutto quegli oggetti che hanno "incontri ravvicinati" con la Terra.
 Per quanto riguarda l'impiego della tecnologia spaziale, bisogna notare che alle
    osservazioni satellitari (IRAS, ISO, HST), che hanno l'enorme vantaggio di poter
    by-passare l'ostacolo costituito dall'atmosfera terrestre, si sono affiancate le
    straordinarie osservazioni ravvicinate delle sonde.
 Sicuramente è ancora vivo il ricordo delle sonde Vega e Giotto destinate a studiare la
    cometa di Halley (1986) e quello della sonda Galileo (1991) inviata verso il sistema di
    Giove, nonché i risultati osservativi da esse riportati.
 Per dovere di cronaca, va ricordato, a proposito delle sonde, che la prima a dover
    attraversare la Fascia degli asteroidi fu la Pioneer 10, lanciata il 3 marzo 1972 con
    destinazione Giove.
 Una particolare considerazione merita infine lo studio dei meteoriti, fino a 60
    anni fa considerati oggetti interstellari, ma oggi collegati a ben precise situazioni
    dinamiche che portano ad identificare il più importante luogo della loro formazione nella
    fascia degli asteroidi, anche se vi è l'evidenza di meteoriti provenienti dalla Luna e da
    Marte ed è inoltre ben noto il ruolo svolto dai nuclei cometari nella formazione dei
    detriti cosmici.
 Si tratta in ogni caso di corpi celesti in grado di fornirci informazioni indirette circa
    i corpi da cui hanno avuto origine non solo perché non ci è noto con precisione il loro
    luogo di provenienza, ma anche perché non conosciamo le condizioni in cui si è svolto il
    loro viaggio verso la Terra, ed inoltre dovremmo riuscire a rimuovere le evidenti
    modificazioni indotte dall'attraversamento della nostra atmosfera.
 L'origine
 Una prima ipotesi circa l'origine degli
    asteroidi (il termine è dovuto a Herschel, mentre Piazzi preferiva quello di pianetini)
    fu formulata da Olbers nel 1805, immediatamente dopo la loro scoperta, e può essere
    definita ipotesi del pianeta distrutto: proponeva infatti che l'intera
    fascia fosse stata generata dalla distruzione di un grosso pianeta causata da un impatto
    catastrofico con un altro corpo planetario.Tale ipotesi riceveva forza anche dalla dimostrazione fatta da Chladni dell'origine
    extraterrestre delle meteoriti, identificate pertanto come i frammenti minori di quel
    gigantesco impatto.
 E comunque molto difficile ipotizzare questo evento estremamente energetico senza mettere
    in conto il suo possibile pesante influsso sui pianeti più vicini, ed in tal senso appare
    veramente inspiegabile la "tranquillità" del sistema satellitare di Giove.
 Scartata dunque l'idea di Olbers, come spiegare l'origine di questi corpi, tenendo conto
    anche della mancanza di materiale nella fascia degli asteroidi?
 In verità i dati in nostro possesso relativi alla massa di questi corpi sono
    sufficientemente precisi (con una incertezza di circa il 10% o meno) solamente per tre
    asteroidi, vale a dire Cerere (9x1020 kg), Pallade (1.5x1020 kg), e
    Vesta (1.7x1020 kg); per tutti gli altri si hanno valutazioni più o meno
    attendibili basate sugli spettri e sulle stime di diametri e di densità.
 Solamente per altri due asteroidi (Hygiea ed Interamnia) sono stati pubblicati lavori
    riguardanti la determinazione della massa, ma entrambe queste valutazioni sono
    caratterizzate da una incertezza di circa il 50%.
 Un modo per determinare questo parametro fisico ci potrebbe essere offerto dal verificarsi
    di episodi di incontri ravvicinati tra asteroidi e dalle conseguenti perturbazioni
    orbitali; in questa direzione si è mosso il lavoro di Hilton et al. (1996) che ha
    fornito, partendo da un campione di 4583 asteroidi della fascia principale, i più
    favorevoli "incroci orbitali" nel periodo 1950-2017.
 Ad ogni modo, stime attendibili fissano la massa complessiva della Fascia asteroidale in
    circa il 5% della massa lunare (ML = 7.35 x 1022 kg) e ciò significa che il contributo di Cerere
    ammonterebbe a circa il 33% del totale.
 Si potrebbe tentare una prima e immediata spiegazione di questa carenza di materiale nella
    zona asteroidale ipotizzando una discontinuità presente nella nebulosa originaria, ma
    questa spiegazione non è ritenuta verosimile.
 E invece ritenuto più ragionevole attribuire alla rapida formazione di Giove l'innesco di
    quel meccanismo di svuotamento che ha portato alla situazione attuale partendo, comunque,
    da una massa iniziale che si presume sia stata poche volte quella attuale (Taylor, 1992).
 Attualmente l'ipotesi prevalente è perciò quella di un pianeta che non ha potuto
    formarsi a causa della pesante azione gravitazionale di Giove.
 La nebulosa originaria era caratterizzata, come già detto, da una graduale diminuzione
    della temperatura all'aumentare della distanza dal Sole, ed è evidente che nella regione
    di Giove ci fosse certamente maggiore disponibilità di "nuclei di aggregazione"
    data la maggiore abbondanza di sostanze volatili presenti allo stato solido (snow line);
    più in generale si può ipotizzare che la formazione dei planetesimi sia avvenuta con
    ritmi diversi a differenti distanza dal Sole.
 Questo significa che il processo di aggregazione di Giove era certamente più avanzato che
    non quello dei pianeti più interni (costituiti da materiali rocciosi) e di conseguenza
    era presente in modo determinante il suo influsso gravitazionale quando le fasi di
    costruzione dei pianeti più interni erano solo all'inizio.
 Ricordiamo, come già detto, che il tempo di accrezione di Giove viene stimato in 105 anni (Ward, 1989), mentre quello dei pianeti interni in 107-108 anni (Taylor, 1992).
 La rapida formazione del massiccio Giove, seguito da Saturno, avrebbe generato regioni di
    risonanza (Torbett et al.,1982) che, modificando gli elementi orbitali dei planetesimi
    presenti in quelle zone, avrebbero arrestato la fase di accrezione di un unico corpo nella
    regione della attuale fascia asteroidale (Taylor, 1992) innescando nel contempo un
    processo collisionale tuttora in corso (Farinella, 1988).
 E indispensabile, pertanto, approfondire sia il meccanismo delle risonanze che il ruolo
    degli impatti: la loro azione è tuttora pesantemente presente.
 L'azione delle
    risonanze
 Il ruolo di Giove e delle sue perturbazioni
    gravitazionali fu evidenziato fin dal 1866: risale a quell'epoca infatti la scoperta, da
    parte di D. Kirkwood, di vuoti (Figura 2 - Hartmann, I corpi
    minori del Sistema solare, pag. 262) nella distribuzione dei semiassi maggiori
    delle orbite degli asteroidi.Confrontando i periodi corrispondenti a queste lacune con il periodo di Giove, Kirkwood
    ipotizzò la presenza di effetti di risonanza tra le orbite, responsabili, a lungo andare,
    di sostanziali modificazioni dell'orbita originaria.
 
  Tale ipotesi venne ripresa ed approfondita negli anni
    '80, periodo caratterizzato anche da un notevole aumento di interesse per lo studio degli
    asteroidi, fino ad allora considerati in modo abbastanza marginale. La necessità di inglobare nelle teorie dinamiche anche l'analisi degli asteroidi di tipo
    Amor, Aten e Apollo caratterizzati da orbite particolarmente eccentriche spinse ad
    approfondire i meccanismi responsabili dell'evoluzione orbitale e, al primo posto tra
    questi, proprio i fenomeni di risonanza.
 Con il termine risonanza si intende quella situazione dinamica in cui le configurazioni
    delle orbite di due corpi celesti si ripetono periodicamente nel tempo.
 Il risultato dinamico prodotto dai fenomeni di risonanza non è univoco, ma si può
    manifestare sia come stabilizzatore nel tempo della configurazione, sia come causa di
    oscillazioni periodiche dei parametri orbitali, ma può anche sfociare in variazioni
    improvvise ed imprevedibili dei suddetti parametri.
 Seguendo con simulazioni dinamiche il comportamento di un asteroide prossimo ad una zona
    di risonanza si è potuto constatare come la sua orbita, stabile per molte migliaia di
    anni, venga improvvisamente ed imprevedibilmente modificata fino a portarla ad incrociare
    quella di Marte o della Terra contribuendo in questo modo ad aumentare una delle lacune di
    Kirkwood e, più pericolosamente per noi, l'eventualità di una collisione.
 Fondamentalmente si distinguono due tipologie di risonanza:1.  risonanza di moto medio, che ha nel fenomeno delle lacune
    evidenziato dall'analisi di Kirkwood e riconducibile all'azione di Giove l'esempio più
    eclatante.
 I due corpi risonanti sono caratterizzati dall'avere i periodi orbitali legati tra di loro
    da rapporti numerici semplici, ed è questo rapporto numerico il modo comunemente
    utilizzato per indicare una risonanza di questo tipo.
 I risultati dell'azione di queste risonanze sono molteplici e talvolta i dati reali
    discordano con la situazione ottenuta attraverso simulazioni al calcolatore.
 Per la risonanza 2:1, ad esempio, le simulazioni numeriche non prevedono meccanismi di
    espulsione efficienti, mentre in realtà si osserva una larga lacuna e questo porta a
    dover ipotizzare meccanismi dinamici (o sovrapposizioni di più effetti) per i quali i
    tempi caratteristici siano decine o forse centinaia di milioni di anni (Farinella, 1993).
 2.  risonanze secolari, consistenti nel fatto che i due corpi risonanti
    sono caratterizzati da uguale periodo nella variazione dell'orbita nello spazio, vale a
    dire la precessione del piano orbitale e la precessione della direzione del perielio.
 I tempi caratteristici degli effetti indotti da queste risonanze sono valutabili in
    milioni di anni, ma hanno una efficienza confrontabile con quella delle risonanze di moto
    medio.
 Certamente un notevole passo in avanti nella comprensione del fenomeno delle risonanze si
    è compiuto con l'introduzione delle simulazioni computerizzate, ma non sempre si riesce a
    ricostruire in modo completo le leggi che governano le zone di risonanza anche se la
    simulazione, grazie all'aumentata capacità di calcolo consentita dai computer più
    recenti, può essere spinta su periodi di centinaia di migliaia di anni.
 Il problema di fondo è la sovrapposizione, spesso in modo caotico, di molte risonanze
    differenti con risultati altamente imprevedibili.
 E in ogni caso innegabile il ruolo di rimescolamento orbitale generato da questi fenomeni,
    con il conseguente incremento del numero degli eventi collisionali non solo tra la
    popolazione asteroidale, ma anche con corpi di maggiori dimensioni quali i pianeti ed i
    satelliti.
 Il quadro generale dell'azione dei meccanismi di risonanza può essere così delineato:
    sia le risonanze di moto medio sia alcune risonanze secolari (prima tra tutte la risonanza
    ni6) "pompano" in modo formidabile
    l'eccentricità dell'orbita degli asteroidi su una scala temporale dell'ordine del milione
    di anni.
 Tale incremento dell'eccentricità è molto regolare nel caso della risonanza secolare,
    mentre nel caso delle risonanze di moto medio (soprattutto la 3:1 e 5:2 con Giove) risulta
    estremamente irregolare.
 L'aumento del valore dell'eccentricità finisce praticamente con il trasformare le orbite
    da quasi circolari (confinate tra Marte e Giove) a fortemente ellittiche e ciò può
    comportare, talvolta, che le nuove orbite attraversino quelle dei pianeti, Terra compresa.
 Ed è proprio il passaggio ravvicinato accanto ai pianeti un efficiente meccanismo
    dinamico in grado di "estrarre" un asteroide dalla sua orbita risonante; il
    fly-by (tecnica utilizzata spesso anche nel caso di esplorazioni spaziali quale sorgente
    di energia necessaria a lanciare la sonda su un'orbita differente) è infatti in grado di
    modificare sia il valore del semiasse sia l'eccentricità dell'orbita.
 Un altro meccanismo che ha mostrato di interagire con l'azione delle risonanze è quello
    collisionale; nel caso di eventi particolarmente violenti, del tipo di quelli che
    incontreremo parlando delle famiglie dinamiche, l'energia dell'impatto è sufficiente a
    lanciare i frammenti in una risonanza.
 Questa situazione viene indicata con il termine di immissione diretta, mentre se
    l'azione di assorbimento è graduale si indica con il termine di cattura adiabatica.
 Un evento catastrofico qual è quello responsabile della creazione di una famiglia
    dinamica non produce solamente corpi di grandi dimensioni (la cui presenza è, spesso,
    l'unico indizio in nostro possesso che ci possa consentire di ricostruire l'accaduto), ma
    anche, inevitabilmente, detriti di ogni dimensione, che l'osservazione non riuscirà mai
    ad identificare e che, non necessariamente, sono destinati a riaggregarsi attorno ai corpi
    maggiori: sono questi, evidentemente, gli oggetti più facilmente immessi nelle risonanze
    e da queste convogliate quale materiale meteorico anche nelle regioni più interne del
    Sistema Solare (Morbidelli et al., 1996).In alcuni casi è stato possibile ricondurre un evento meteorico alla famiglia dinamica
    con la quale sarebbe accomunato: è il caso delle eucriti riconducibili alla famiglia
    dinamica di Vesta (Taylor, 1992) e delle condriti ordinarie per le quali si è proposto
    uno strettissimo legame con la famiglia dinamica di Maria (Zappalà et al., 1997).
 Molte famiglie dinamiche risultano "troncate" ai bordi di alcune risonanze di
    moto medio; è il caso, ad esempio, della famiglia di Themis, collocata in prossimità
    della risonanza 2:1 con Giove, che risulta chiaramente delimitata dalla risonanza stessa
    suggerendo in modo chiaro che molti oggetti originatisi al momento dell'evento
    catastrofico progenitore siano stati rimossi dalla sua azione.
 Una situazione dinamica particolarmente significativa è quella corrispondente alla
    regione dei Tauridi (argomento sul quale ritornerò parlando di 4179 Toutatis): i corpi
    che la popolano sono soggetti a notevoli azioni perturbative dei pianeti e questo comporta
    la loro rapida eliminazione, che si concretizza nella collisione con il Sole o con i
    pianeti o nell'espulsione dal Sistema Solare su orbite iperboliche.
 Ed a questo proposito va sottolineata l'importante azione del Sole: nelle simulazioni si
    sono registrati molti impatti con la nostra stella prima che gli oggetti potessero colpire
    la Terra, configurando in tal modo una sorta di "azione protettiva" nei nostri
    confronti (Morbidelli, 1997 b).
 Il ruolo
    degli impatti
 Già si è avuto modo di evidenziare la presenza
    e limportanza delle collisioni quale meccanismo fondamentale per laccrezione
    dei planetesimi fin dalle prime fasi della formazione dei pianeti, ed è ragionevole
    ipotizzare il permanere di tale meccanismo anche dopo che i corpi maggiori si erano
    completamente formati.La presenza di grandi crateri sulle superfici planetarie e dei satelliti costituisce, in
    questo senso, una evidenza diretta dellesistenza di planetesimi di varie dimensioni
    e del fatto che laccrezione planetaria è avvenuta secondo un meccanismo di tipo
    "gerarchico" e non dallammassarsi di polveri.
 Anche la stessa obliquità dei pianeti è consistente con la collisione di corpi molto
    grandi; se i pianeti si fossero formati per accrezione dal disco di polveri oppure
    soltanto da piccoli oggetti, il loro asse di rotazione sarebbe perpendicolare al piano
    dellorbita, trascurando evidentemente lazione di oggetti grandi che avrebbero
    potuto influenzare lassestamento mareale.
 Vale la pena sottolineare come il fenomeno abbia coinvolto anche i pianeti più massicci e
    non solo i pianeti terrestri; nellipotesi planetesimale dellevoluzione del
    Sistema Solare tali impatti costituiscono pertanto un fenomeno globale, ubiquitario,
    iniziato con laccrezione dei grani, ma che via via ha coinvolto oggetti sempre più
    grandi fino a giungere ad impatti estremamente violenti quali quelli che hanno interessato
    Urano (letteralmente "adagiato" sul suo piano orbitale), Venere (con
    linversione del senso di rotazione), Mercurio (svuotato del suo mantello di
    silicati) e la nostra Terra allorchè si è originata la Luna.
 Con lenergia associabile ad un evento di impatto è possibile, inoltre, spiegare il
    fenomeno della fusione dei pianeti di tipo terrestre con la separazione del nucleo e del
    mantello.
 Il passaggio attraverso una fase di impatti estremamente violenti nel corso degli eventi
    che hanno portato allaccumulazione dei pianeti di tipo terrestre è stato oggetto di
    una simulazione numerica (Wetherill, 1985) ed i risultati ottenuti concordano con
    lattuale distribuzione dei corpi planetari del Sistema Solare.
 E ipotizzabile unepoca di impatti estremamente violenti a velocità di circa 9
    km/sec tra corpi dotati di massa corrispondente a più di tre volte quella di Marte.
 Si ritiene, però, che i fenomeni di riscaldamento da impatto in grado di consentire
    (assieme alla produzione termica indotta dai decadimenti radioattivi) la differenziazione
    del nucleo metallico nei pianeti terrestri non siano circoscrivibili solo al momento di
    maggiore intensità dei fenomeni collisionali durante lo stadio finale
    dellaccrescimento planetario, ma avrebbero accompagnato lintero percorso
    evolutivo.
 Anche sulla Terra, certamente con evidenza meno marcata, è possibile identificare molti
    crateri da impatto, vere e proprie cicatrici lasciate sulla crosta del nostro pianeta
    dallurto con un oggetto esterno; ma questo argomento è oggetto di una specifica trattazione (si veda a tal proposito la mia Impact Page).
 Come è facilmente intuibile, i fenomeni di tipo collisionale non possono non aver
    interessato anche la fascia asteroidale, anzi, lazione gravitazionale di Giove ed il
    caos dinamico indotto hanno comportato senza dubbio un incremento degli episodi di impatto
    tra planetesimi che, per la loro vicinanza, risentivano maggiormente dellinfluenza
    del pianeta gigante.
 Volendo analizzare i meccanismi ed i parametri fisici coinvolti in un impatto tra oggetti
    delle dimensioni di un asteroide, ci si imbatte però in notevoli difficoltà legate
    soprattutto allenorme quantità di parametri da gestire, ed è pertanto
    indispensabile cercare di acquisire informazioni attraverso la realizzazione e lo studio
    di esperimenti di impatto effettuati in laboratorio.
 Lapplicabilità, poi, delle informazioni raccolte al caso specifico degli asteroidi
    è resa comunque problematica da due fattori:
 a.  bisogna estrapolare i risultati sperimentali ed applicarli ad
    oggetti di massa di 15-20 ordini di grandezza maggiore;
 b.  non possono essere trascurati gli effetti gravitazionali, che, nel
    caso degli asteroidi, diventano molto importanti per i residui dellimpatto.
 Non tutti gli impatti, infatti, producono gli stessi effetti; se un asteroide con diametro
    di 10 km venisse colpito da un proiettile con dimensioni di 1/10 delle sue verrebbe
    completamente distrutto ed i frammenti dispersi.
 Se, invece, fosse un asteroide di 1000 km il bersaglio e, come prima, il proiettile avesse
    dimensioni di 1/10 del bersaglio si assisterebbe ancora alla distruzione, ma, in questo
    caso, i frammenti verrebbero riaggregati dalla gravità originando un corpo con una
    struttura "a mucchio di detriti" (rubble-pile).
 Appare comunque consolidato il fatto che i parametri fondamentali per uno studio del
    meccanismo delle collisioni sono lenergia cinetica del proiettile (E) e la massa del
    bersaglio (M).
 In base a questi parametri vengono solitamente distinti 4 casi (Cerroni, 1986; Fujiwara,
    1986):
   1.   CRATERIZZAZIONE (E/M < 106 erg/g): si
    verifica un "danno" solo superficiale.E leffetto riscontrabile sulla superficie di tutti i pianeti interni, dei
    satelliti nonchè di tutti gli asteroidi dei quali si è potuto avere una serie di
    immagini ravvicinate.
 2.   ZONA DI TRANSIZIONE (E/M < 107 erg/g):
    oltre alla formazione di un cratere si verifica anche una parziale asportazione di
    materiale dal bersaglio, in quantità dipendenti dal contenuto energetico dellurto.
 3.   DISTRUZIONE PROFONDA o CORE-TYPE (E/M < 108
    erg/g): viene lasciata intatta soltanto la zona più interna del bersaglio.
 4.   DISTRUZIONE TOTALE (E/M > 108 erg/g): il
    bersaglio viene completamente frantumato dalla collisione.
 Losservazione fisica degli asteroidi mostra esempi riconducibili a tutti questi
    casi; se fino a qualche anno fa la craterizzazione era dimostrabile solo per le superfici
    dei corpi maggiori, lanalisi ravvicinata di alcuni asteroidi e satelliti ha mostrato
    senzombra di dubbio la presenza, talvolta massiccia, dei segni provocati dagli
    impatti.Lanalisi spettroscopica degli asteroidi fornisce spesso indicazioni che permettono
    di ipotizzare che un corpo costituisca ciò che rimane della parte più interna di un
    oggetto frantumato da un urto.
 Lidea, suggerita anche dallanalisi delle forme, che molti asteroidi possano
    essere caratterizzati da una struttura a rubble-pile è riconducibile, come già
    detto, proprio al meccanismo di riaccumulazione gravitazionale del materiale prodotto da
    un urto catastrofico.
 Il caso statisticamente più frequente è, comunque, limpatto tra due oggetti molto
    differenti tra di loro come dimensioni, urto che, praticamente, si traduce in un
    incremento della craterizzazione del corpo maggiore.
 Un problema che si è presentato quasi subito ai ricercatori
    nellapplicazione dei modelli di impatto agli asteroidi è stato quello di conciliare
    lesistenza di curve di luce periodiche (chiaro indice di una rotazione regolare) con
    levidente possibilità che un urto potesse indurre nel bersaglio un moto di
    precessione libera, cioè una rotazione che non avviene intorno ad uno degli assi
    principali dinerzia del corpo.
 Tale moto irregolare è stato talvolta descritto impiegando i termini, non propriamente
    corretti ma estremamente significativi, di "rotazione ubriaca" (Farinella, 1994)
    o di moto "a ruzzoloni" nello spazio (Harris, 1994).
 Il problema di fondo era quello di valutare quanto tempo occorresse affinchè la rotazione
    abbandonasse tale stato irregolare e si stabilizzasse in una rotazione regolare.
 Una prima risposta (Burns e Safronov, 1973) prevedeva che la regolarizzazione della
    rotazione avvenisse in tempi compresi tra 100 mila e 100 milioni di anni, dunque piuttosto
    brevi se paragonati alletà del Sistema Solare o comunque alla frequenza di
    collisioni sufficientemente violente.
 Alla fine del 1992, dopo lintensa campagna osservativa che aveva come obiettivo 4179
    Toutatis (un asteroide Eart-crossing avvicinatosi a soli 4 milioni di km dalla Terra),
    apparve evidente la rotazione non regolare di questo asteroide, scoperta che suggerì di
    approfondire il lavoro di Burns e Safronov.
 Harris (1994) verificò come la regolarizzazione del moto dipendesse strettamente sia
    dalle dimensioni che dal periodo di rotazione e talvolta potesse richiedere tempi più
    lunghi delletà del Sistema Solare.
 Mettendo in un grafico (Figura 3 - adattata da: Harris, Icarus, 107,
    pag. 210, fig. 1; 1994) questi valori per gli asteroidi di cui è stata finora osservata
    la curva di luce e tracciando i confini tra regioni del piano in cui ci si deve aspettare
    tempi di "regolarizzazione" differenti (linee diagonali), si può notare che
    quasi tutti gli asteroidi sono compresi nella regione caratterizzata da tempi più bassi,
    confermando in tal modo le prime valutazioni di Burns e Safronov.
 Osservando, però, sul grafico la posizione di 4179 Toutatis e di altri asteroidi si può
    subito notare come i tempi necessari agli attriti interni di questi corpi per assumere una
    rotazione regolare sono effettivamente molto più lunghi delletà del Sistema
    Solare.
 
  Bisogna comunque sottolineare che, anche se nella fascia asteroidale i
    fenomeni di collisione sono stati più intensi di quelli verificatisi in altre zone del
    Sistema Solare (grazie alla già ampiamente citata influenza di Giove), la presenza di una
    crosta basaltica quale costituente della superficie di Vesta può essere considerata una
    chiara indicazione che gli impatti subiti da questo corpo non sono stati così frequenti
    da modificare in modo drastico la sua superficie, databile circa 4.5 miliardi di anni
    (Chapman, 1986; Taylor, 1992). Questo non significa che Vesta abbia goduto di una sorta di immunità dagli impatti: studi
    recenti basati su elaborazione di immagini dellHST (Thomas et al., 1997) hanno
    rilevato sulla superficie di questo asteroide, nella zona corrispondente al polo sud, un
    cratere profondo oltre 150 km il cui diametro misura 460 km.
 Già questo cratere ha dimensioni rilevanti in senso assoluto, ma diventa veramente
    gigantesco se confrontato con le dimensioni complessive dellasteroide, valutate in
    580x560x460 km.
 E allevento che ha causato questo enorme cratere che viene ricondotta non solo
    la genesi di una famiglia dinamica, ma anche lorigine delle acondriti basaltiche,
    una classe di meteoriti (circa il 6% dei meteoriti che cadono sulla Terra) che comprende
    le howarditi, le eucriti e le diogeniti (HED).
 E opportuno, in ogni caso, evidenziare come non si possa correttamente impostare un
    discorso relativo agli impatti ed al loro ruolo (anche evolutivo) per la popolazione
    asteroidale limitandosi unicamente al fenomeno della craterizzazione.
 Assumono, infatti, importanza cruciale, e già si è detto qualcosa a proposito di Vesta,
    anche gli eventi più energetici: le immagini di Gaspra e Ida mostrano che questi corpi
    sono morfologicamente simili a grossi detriti, ed alla stessa conclusione portano gli
    studi dei profili di Eros, Toutatis, Castalia, Geographos e di moltissimi altri asteroidi.
 Da ciò deriva la necessità di prendere in considerazione le conseguenze degli impatti
    più energetici, riconducendo ad essi la formazione delle famiglie dinamiche.
 
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